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Parma, 19 maggio 2015.

Dalla Costituzione Italiana, Articolo 11: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...”; Articolo 52: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.

“Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia. Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la patria e l’onore della patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici” (Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari, 1965).

“Rivolgo un forte appello per la pace, un appello che nasce dall’intimo di me stesso! Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato paese [Siria], specialmente tra la popolazione civile e inerme! Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro! Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi! […] Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!” (Papa Francesco, Allocuzione all’Angelus, Piazza San Pietro, domenica 1 settembre 2013).

Alla parola “pace” opponiamo, di solito, la parola “guerra”. Ma, secondo il modello nonviolento, così non è: “pace” si oppone anzitutto a “violenza”, dato che la guerra è una delle sue forme, senz’altro la più visibile e distruttiva. Inoltre, secondo il criterio gandhiano (e capitiniano), la nonviolenza viene declinata da alcune pratiche (non collaborazione, obiezione di coscienza, boicottaggio ecc.), ma contempla in primo luogo la nonmenzogna. Infatti l’occultamento della verità, il nascondimento dei fatti reali, costituiscono una delle maggiori forme di violenza, perché ci privano degli elementi di conoscenza obbiettiva che ci permettono di farci un’opinione, e quindi di agire con cognizione di causa.

La prima vittima delle guerre è la verità.

Pensiamo alle guerre del Novecento: sono state dichiarate e combattute per motivi e secondo logiche che l’opinione pubblica non doveva sapere ma supinamente condividere. Per cui l’ipocrisia divenne il modo di ottenere il consenso dei cittadini ridotti a sudditi. Uso le parole dell’ex generale Fabio Mini (cf. Perché siamo così ipocriti sulla guerra? Un generale della Nato racconta, 2012): la guerra è un grande inganno e noi tutti siamo possibili strumenti di manipolazione della verità. Purtroppo non è l’Onu che mantiene l’ordine mondiale, ma lobby, bande, Stati mafia, che si fanno le loro leggi. Quasi sempre, poi, l’Onu delega le potenze regionali, e quindi le loro forze armate ad intervenire. Nei fatti sono guerre (eufemisticamente chiamate “umanitarie”) anche se la Carta delle Nazioni Unite non le prevede (“la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune”): l’ingerenza umanitaria è una ideologia che permette all’Onu di aggredire “legalmente”. Nel Consiglio di sicurezza siedono solo i vincitori della seconda guerra mondiale, e guarda caso sono i più grandi produttori ed esportatori d’armi: come aspettarci da loro scelte oculate tendenti a trovare soluzioni non armate ai conflitti?

Nessuna guerra rispetta le regole del diritto, alla faccia di convenzioni, trattati ecc. A cominciare dalla cosiddetta grande guerra: 9 milioni di morti.

Nessun paese coinvolto si assunse la responsabilità di averla scatenata: tutti dissero di essere stati aggrediti e di doversi difendere. Sappiamo che non fu così. Bastò sbandierare il termine “difesa” per far correre milioni di giovani agli uffici di leva e al fronte. E così si scannarono per 4 anni – un’inutile strage, disse papa Benedetto XV –, senza che gli imperi centrali fossero stati militarmente vinti. Poterono più la fame e la mancanza di risorse che le armi. Poi siglarono una pace, che si accanì contro i vinti, non soddisfò che in parte i vincitori, e creò le condizioni per le dittature e i totalitarismi del XX secolo, preparando le condizione della seconda guerra mondiale (70 milioni di morti).

Oggi come ieri la parola d’ordine continua ad essere: “dobbiamo difenderci”.

Non sono, però, i nostri confini geografici che devono essere tutelati, ma i nostri interessi economici, finanziari, industriali, in tutto il mondo, per cui colpire un’ambasciata occidentale in un paese asiatico o africano è come colpire la metropoli, ed i responsabili vanno puniti perché un’azienda, un ufficio import-export, una base militare sono “territorio nazionale” inviolabile, e colpire questi significa dichiarare guerra alla madre patria. Diritto di ingerenza, ovunque e sempre. Per alcuni il mondo è davvero globalizzato, gli Stati non esistono più ecc. Quando però arrivano migliaia di persone sulle nostre coste, in fuga da violenze, guerre e fame, allora si riscoprono i confini, gli Stati, le acque territoriali ecc.

Bin Laden era una creatura dell’Arabia Saudita. Tutti lo sapevano. Ebbene, l’anno scorso i tribunali di quel paese hanno decretato la decapitazione di circa 100 persone. Una notizia tra le altre. Eppure la decapitazione altro non è che la forma più evoluta dello sgozzamento praticato dal sedicente Stato islamico. Ma l’Is è terrorista, nemico della civiltà, invece l’Arabia Saudita, il Qatar ecc. sono alleati dell’Occidente, lo rappresentano contro l’Iran, acquistano una grande quantità di armi, le nostre ecc. Che poi non esistano diritti civili e politici, che si usi ancora la lapidazione, che i lavoratori immigrati vivano in condizioni infernali o si siano già registrate 1200 morti bianche per la costruzione degli stadi che ospiteranno le partite dei Mondiali del 2022, questo non interessa a nessuno.

La logica è: da che parte stai? Con noi? Bene, ti perdoniamo tutto, finché ci fa comodo. Contro di noi? Allora sei un terrorista, estremista islamico ecc.

Poi ci sono i traditori: Saddam, uomo degli americani ed europei negli 8 anni di guerra contro l’Iran (1 milione di morti) avanza troppe pretese e diventa il “dittatore Saddam”, “il nuovo Hitler”, persecutore dei curdi – ma li perseguitava già ai tempi in cui era nostro alleato, senza che nessuno gli dicesse niente. E allora? Ma noi difendiamo – così diciamo – i diritti umani! Ma Dick Cheney a Guantánamo ha autorizzato la tortura – come ha ammesso davanti al Congresso, e questa pratica, oggi, è molto diffusa, anche in paesi europei cosiddetti democratici. Infatti c’è chi pensa ad inserire nelle legislazioni nazionali il “delitto di tortura”. Il che significa ammetterne la pratica.

Attenzione alla menzogna. Saddam invase il Kuwait per una vecchia contesa territoriale e di sfruttamento del petrolio dopo che l’ambasciata Usa gli aveva detto che la considerava una questione tra Stati arabi. Ma un’agenzia inventò i neonati uccisi nelle culle e le armi di distruzioni di massa, che non c’erano, come ha dovuto ammettere Blair. Quante centinaia di migliaia di morti è costato quest’imbroglio? Eppure quella menzogna era stata considerata necessaria, perché altrimenti l’opinione pubblica non avrebbe accettato quella carneficina. Pare che Clinton abbia detto di recente che “l’Is ci è sfuggito di mano”. Terribile! Voleva dire che prima lo si controllava, lo si poteva manovrare. Come e chi?  E i vari gruppi fondamentalisti, Al Qaeda e le sue sottospecie non nascono forse dai guerriglieri allevati in Pakistan dagli Usa e mandati a combattere contro i russi in Afghanistan? Sono gli stessi talebani contro i quali l’Occidente ha combattuto una guerra ancora in atto e dove son morte decine di migliaia di innocenti.

Perché tanta cecità, ignoranza, supponenza, poca avvedutezza? Eppure Faust ed il suo patto col diavolo dovrebbe insegnarci qualcosa. Ma tant’è. Ora ci sarà una “guerra contro gli scafisti” decretata dall’Ue, con l’avallo dell’Onu... Un proverbio orientale dice che quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. Bombarderemo gli scafisti libici sapendo che le rotte della disperazione partono da altrove (Egitto, Tunisia ecc.) e seguono altri cammini, come quellibalcanici? Questo approccio crea consenso a basso prezzo: pie illusioni dal corto respiro, oltremodo ciniche. Chi elabora tali scelte si chiede qual è la causa di questa immigrazione?

Chi ha ridotto la Libia allo stato attuale? Francia, Inghilterra, Italia ecc. Gheddafi? Un tiranno. Ma lo era da sempre e sempre abbiamo fatto affari con lui perché lì ci sono i pozzi dell’Eni e del gas che… scalda le nostre case! E se invece degli “schiavisti dei barconi”, che ci sono senz’altro, parlassimo di mal sviluppo indotto dai nostri interessi, accaparramento delle materie prime, sostegno a governi autoritari e spesso corrotti dalle libere e democratiche democrazie occidentali? Sosteniamo le scelte liberiste del WTO, cioè il libero mercato (libero solo per le nostre merci del nord o dell’est verso il sud) che affama ed uccide non metaforicamente i piccoli produttori, le economie famigliari incrementando le monoculture neocoloniali, a favore delle nostre multinazionali agroalimentari, e quindi degli interessi di pochi, e vogliamo intervenire sulle conseguenze di tutto ciò riducendo la questione ai “barconi”?

Perché non chiamare gli 800 annegati nel Mediterraneo di un mese fa “naufraghi del nostro mal sviluppo”? I diritti umani non sono rispettati nei loro paesi; ma spesso quei governi sono alleati dei nostri, nostri amici ecc.

Il nostro primo ministro è andato in Mozambico, Congo Brazzaville e Angola a fare che cosa? Business per l’Italia o sviluppo per quei paesi? In Egitto ha stretto la mano al presidente al-Sisi, un generale che ha fatto un colpo di stato contro una formazione che aveva vinto le elezioni, i Fratelli musulmani. Erano integralisti? Forse, ma è strana quella democrazia che si accetta di riconoscere solo quando dà il potere ai nostri amici. L’abbiamo ridotta ad un gioco truccato; che credibilità abbiamo nel brandirla come una mazza ferrata contro coloro che la negano… quando siamo proprio noi a farlo. Pensiamo che i popoli che ci guardano non vedano le nostre contraddizioni, non abbiano memoria del colonialismo europeo... Forse la nostra memoria si sarà prosciugata, ma la loro no... o non del tutto.

Ecco perché l’impegno contro la menzogna, pubblica o privata, dovrebbe essere il primo nemico da combattere con le armi della nonviolenza: conoscere di più; sapere di più e meglio; garantire un reale pluralismo, che permetta uno scambio di idee che arricchisca la coscienza di ognuno e la responsabilità della collettività; promuovere centri, strutture, occasioni di incontro perché oggi gli strumenti di comunicazione non sono altro che moderne armi di “distrazione di massa”, letali quanto una bomba perché massacrano la verità, e quindi uccidono uno dei diritti umani fondamentali, quello della libertà di scegliere e decidere liberamente e con coscienza della propria vita.

Si dice che la nonviolenza è impotente, senza efficacia sul destino dei popoli. Ritorniamo al punto precedente: se nessuno la racconta, se si vuole far credere che la storia dell’umanità sia stata solo una vicenda bellica, di scannamenti e stragi, o di battaglie gloriose (che fa lo stesso), di generali pluridecorati ed imperatori, si sa di mentire. Oppure non necessariamente, nel senso che chi sostiene ciò è anche in buona fede perché cresciuto in ambienti, in una cultura, in contesti in cui per davvero la guerra come soluzione delle controversie internazionali era legittima, legale, normata e purtroppo, anche benedetta (teoria della guerra giusta).

“Chi ha paura dei movimenti popolari nonviolenti?”, si sono chiesti più volte prestigiosi studiosi della materia.

Non solo minoranze che della violenza armata hanno fatto la loro ragion d’essere (e di sopravvivenza economica personale: “il mestiere delle armi” è un lavoro come tanti altri soprattutto là dove non ci sono alternative), ma anche coloro che dalle guerre preparate hanno tutto da guadagnarci (produttori d’armi, in primis; governi cosiddetti democratici che temono cambiamenti nelle loro società spesso ingiuste e strutturalmente violente, o che attraverso l’agitazione del pericolo del “nemico” soprattutto se terrorista, può far tacere le opposizioni, costruire consenso, seminare paura ecc.). 

E se invece di denunciare i presunti fallimenti delle azioni nonviolente, come fanno coloro che della menzogna hanno fatto una pratica di potere, cominciassimo a riflettere sui fallimenti degli interventi militari di grandi potenze militari? Basterebbe soffermarci sugli esiti di guerre recenti: tutti hanno sotto gli occhi la situazione in Iraq. Doveva diventare la terra della nuova democrazia importata con le armi, riunificare il paese, concedere indipendenza al Kurdistan ecc. Ebbene, cos’è rimasto? Poco o niente, se non un paese distrutto materialmente, lacerato ancor di più sul piano delle confessioni religiose, le cui élite sono interessate a fare affari economici con quelle occidentali per arricchirsi alle spalle dei loro popoli.

E allora a che cosa è servita l’invasione e le stragi che si sono susseguite dagli anni ‘90? E l’Afghanistan? 13 anni di combattimenti, decine di migliaia di morti, feriti, rifugiati in Pakistan? E per che cosa? Quali diritti civili, politici, sociali sono stati conquistati? E la condizione della donna è cambiata? Non ci pare. E allora? Come se l’unico modo di liberarsi dai dittatori e dai “signori della guerra” locali non potesse essere che quello di adottare i soliti mezzi militari che hanno falcidiato soprattutto i civili, i famosi “danni collaterali” per i quali era subito pronta una scusa da parte dei comandi supremi alleati? Così come non mi pare che l’intervento militare Usa in Vietnam, o quello russo in Afghanistan, abbiano avuto dei risultati benefici se misurati con gli obiettivi che si volevano conseguire. Mentre l’indipendenza dell’India dall’occupazione britannica, o il conseguimento dei diritti civili delle minoranze negli Usa, Solidarnosc in Polonia, la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cambiamento nei paesi dell’Est (Cecoslovacchia, Ungheria ecc.), tutti interventi nonviolenti, abbiano nei fatti ottenuto ciò che avevano promesso. Si sono imposti per la loro legittimità opponendosi con pazienza e determinazione all’ingiustificata violenza repressiva di poteri impopolari, togliendo loro consenso, appoggio, legittimità fino a portarli alla catastrofe definitiva.

La violenza armata, oltre ad essere criminale, è noiosa, scontata, prevedibile, basata su un rapporto di forze momentaneo, dove c’è un vincitore ed un vinto.

 Ma a queste condizioni sappiamo – è la storia a dircelo – che la pace altro non è che una tregua, breve o lunga, in attesa che si creino le condizioni di una possibile rivincita. Per riaprire il giro, sempre uguale a se stesso. E con esso le recriminazioni, l’odio, la chiusura ad ogni rapporto dell’ex vittima diventata carnefice. La nonviolenza nega questa logica e crea un nuovo paradigma per la soluzione dei conflitti, che parte da un presupposto: non uccidere. Non ha bisogno di militari ubbidienti, ma di persone ragionanti e responsabili. Non rende uniformi i cervelli ma rivendica creatività oltre spirito di sacrificio e coraggio. Chiede un lavoro sull’individuo non per renderlo elemento seriale di una comunità armata ed autoreferenziale, ma per abituarlo ad affrontare il pericolo assumendosi il peso anche del sacrificio. Non è atto di testimonianza, ma rivendica il collettivo dei “persuasi”; non fa sermoni, ma usa le parole per avvicinare, coinvolgere, attraverso azioni dirette. Non improvvisa, ma studia le forze in campo, il contesto, i vari attori in gioco, gli strumenti che si possono usare, i tempi. In buona sostanza, elabora una strategia. Promuove campagne, non battaglie. Ha un programma costruttivo, che contiene e non esclude.

Il nonviolento non vince, ma con-vince; vince insieme al “nemico”, perché tutti e due sono riusciti a trovare un’altra risposta ai problemi rivendicati in cui riconoscersi.

Qui c’è dialogo, creatività, negoziazione, fiducia reciproci. Da conquistare sul “campo”. Il pacifismo chiede che non ci siano guerre (almeno sulla porta di casa), la nonviolenza punta a sconfiggere le ingiustizie materiali che la provocano, ma anche delle culture, tradizioni, pulsioni, modi di pensare, che la alimentano all’interno di ognuno di noi. Chiede i grandi cambiamenti perché pretende i piccoli, quelli individuali. Ma gli uni e gli altri devono avanzate insieme. E questo è il terreno della buona politica che o è nonviolenta (non ideologicamente ma concretamente) o è una contraddizioni in termini.

  • A CURA DELLA REDAZIONE DI MISSIONE OGGI

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