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La prima Giornata mondiale dei poveri (domenica 19 novembre) è passata da poco. Istituita da papa Francesco come continuazione dell’Anno Santo della Misericordia, la giornata doveva ricordare al mondo che il servizio e l’assistenza ai poveri sono uno dei primi segni con i quali la comunità cristiana si presentò sulla scena del mondo.

Il Papa ha presieduto in San Pietro la solenne cerimonia che - grazie alla tecnologia moderna - è stata vista in tutto il mondo. Certamente, molta gente lo avrà fatto. La meraviglia della basilica, il fulgore dei paramenti del clero, gli abiti di gala dei membri del Corpo diplomatico, il lusso dei vestiti delle dame dell’aristocrazia e delle altre persone che gremivano le navate, le musiche solenni… Ho provato a immaginarmi in un campo di profughi del Libano o in una favela del terzo mondo. Cosa penserà un siriano profugo di guerra da tre anni o una mamma sudanese davanti alla cerimonia di San Pietro? Capiranno che si tratta di cose fatte per loro?

Guardavo papa Francesco, forse il più semplice nel vestito, il più sobrio nei gesti, e non ho potuto evitare di pensare al pagliaccio di Kierkegaard. Racconta Soren Kierkegaard che un giorno in un circo scoppiò un violento incendio. Il direttore, disperato, cercò qualcuno che andasse nel villaggio vicino a chiedere aiuto. Trovò solo il pagliaccio già vestito per la recita. Costui corse trafelato al villaggio, supplicando i paesani ad accorrere per dare una mano. Ma essi pensavano a un trucco per attirare la gente. Per questo lo applaudivano, ridendo a crepapelle, ma nessuno si mosse. La situazione continuò così finché il fuoco, trasformato in cenere il circo, si trascinò fino al villaggio che pure andò distrutto dalle fiamme.

Il papa sa che il circo è in preda alle fiamme. Lo ripete in continuazione e con passione. Ma chi lo ascolta? Mi chiedo: la solenne celebrazione in Vaticano ha aiutato i poveri a sentirsi più amati dalla chiesa?

“Il cristiano, chiamato a testimoniare il vangelo di Cristo, rimane spesso inascoltato perché, come nel caso del pagliaccio, non viene mai preso sul serio. Comunque si comporti, qualsiasi gesto faccia per presentare la serietà del caso, tutti sanno già in partenza che egli è, appunto, solo un povero pagliaccio. Si sa già di che cosa parli, si conosce già in partenza che offre solo una rappresentazione fantastica, la quale ha poco o nulla da spartire con la realtà. Si può quindi ascoltarlo con animo sollevato, senza essere obbligati a inquietarsi seriamente per quello che dice” (Joseph Ratzinger, “Introduzione al cristianesimo”, pag.12).

Nella liturgia del giorno è stata letta la parabola dei talenti che ci ricorda i tanti servi buoni e fedeli che impiegano bene e moltiplicano i doni ricevuti. Ma come ignorare i tanti servi “struzzi” che nascondono la testa sotto terra per paura di vivere? L’esistenza dei poveri è la sfida più seria che i cristiani devono affrontare in ogni tempo e in tutte le latitudini. Il modo con cui rispondono a questa sfida determina la loro credibilità.

La parabola dei talenti è una dura critica del cristiano tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte ai cambiamenti richiesti dalle nuove realtà. “Fino a quando, pigro, te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno? Un po’ dormire, un po’ sonnecchiare, un po’ incrociare le braccia per riposare e intanto giunge a te la miseria, come un vagabondo, e l'indigenza, come un mendicante”. (Proverbi 6,9-11)



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