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La tragedia che si è abbattuta sulla comunità di Kamenge (Burundi) lo scorso 7 e 8 settembre, quando sono state trucidate tre missionarie saveriane, ci ha toccato tutti. L’onda di commozione ha mostrato quanto la gente partecipi alle vicende dei missionari e ha provocato un’ulteriore presa di coscienza del male che infierisce nel mondo.

Al di là delle responsabilità dell’eccidio, che non tocca a noi determinare, il fatto ha mostrato come sia vero quello che il papa ripetutamente dice, che cioè “oggi ci sono più martiri nella chiesa che nei primi secoli” e che tra coloro che subiscono persecuzione per le loro convinzioni, i cristiani sono i più numerosi.

“C’è un tempo per parlare…”

Sant’Ambrogio, poco prima di morire, parafrasando un versetto del Qohelet, diceva:

“C’è un tempo adatto per tutto: un tempo per tacere e un tempo per parlare. Devi tacere quando non trovi un interlocutore disponibile;

devi parlare quando il Signore ti concede una lingua sapiente, così da rendere efficace il tuo discorso nel cuore dei tuoi ascoltatori”.

Noi missionari non pecchiamo certamente di timidezza, anzi, siamo spesso accusati di puntare il dito contro le ingiustizie che affliggono i poveri, ma non amiamo parlare troppo dei disastri che ci colpiscono personalmente, perché non vorremmo alimentare l’odio e il risentimento nei confronti di chi ci attacca. Oggi c’è già in giro tanta avversione… che non è evangelica, perché assomiglia alla voglia di vendetta.

Questa volta però non possiamo tacere. Non perché nel caso delle tre missionarie di Kamenge siamo stati colpiti negli affetti famigliari, ma perché dobbiamo denunciare il fatto che molti cristiani, insieme con altre minoranze religiose, sono oggetto di vessazioni e persecuzioni ingiuste e intollerabili.

Perseguitati per la fede

Qualcuno ha lamentato che la chiesa ha parlato poco di queste vicende dolorose, quasi che non sapesse bene cosa e come dire, o avesse scelto di tacere per non compromettere il quieto vivere o il dialogo con tutte le parti in causa. Non è così. La chiesa ha taciuto perché sa che essere perseguitati, per i fedeli e specialmente per i missionari, è in fin dei conti un rischio connesso con la fede e con le scelte della missione.

Già san Pietro scriveva: “Carissimi, non meravigliatevi della persecuzione che, come un incendio, è scoppiata in mezzo a voi per mettervi alla prova, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma, nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi…

Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito di Dio riposa su di voi” (1Pt 4, 12-16).

Contro ogni violenza

Ma quando sono colpite delle persone del tutto inermi - com’erano Olga, Lucia e Bernardetta, le tre missionarie di Kamenge -, e quando persone del tutto innocenti e disarmate “sono perseguitate, sono cacciate via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente con loro, [...] spogliate di tutto” - come ha detto il papa - solo perché non vogliono abbandonare la propria fede, allora la chiesa deve parlare, deve invitare alla preghiera e al perdono, ma deve anche dire al mondo che questa è la strada della barbarie che rivela a che punto l’umanità può giungere quando dimentica le intenzioni del Creatore e i suoi disegni di salvezza.

Il tempo della preghiera non ha termine e anche quello del perdono. Il tempo dell’attesa silenziosa, prudente e calibrata nella ricerca dei canali di ascolto più adeguati e di spiragli di buona volontà per affrontare la difficile e delicata situazione di troppi cristiani d’Asia e d’Africa, deve cedere il passo a quello della parola e dell’appello, come ha fatto in questi ultimi tempi papa Francesco con la ferma condanna di ogni violenza e ogni forma d’intolleranza.

La nostra denuncia

A questa parola autorevole e coraggiosa vogliamo aggiungere anche la nostra denuncia, facendo propria quella del presidente dei vescovi italiani di fronte alla “crudele persecuzione che tormenta e uccide tanti cristiani e altre minoranze religiose”.

Di fronte alla violenza jihadista scatenata in nome di Dio “la nostra coscienza deve ribellarsi. Dobbiamo a una voce gridare che sono crimini contro l’umanità e… se dalla comunità internazionale non si leva univoca, chiara, forte e insistente la condanna e la presa di distanza dall’inaccettabile vergogna, è un atto di viltà imperdonabile”.



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