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L'ultima cena del Romanino

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L'affresco del refettorio, restaurato nell'estate 2000, viene oggi attribuito al Romanino dopo lo studio del Panazza (1965) che lo data al 1530. In antico era ignorato dagli scrittori di cose d'arte oppure confuso con altre opere a causa del forte stato di degrado in cui versava, da lustri ormai, se viene ignorato addirittura nel 1660 dal Paglia.

Strappato nel 1964 da Ottemi della Rotta per interessamento dei Missionari Saveriani, dopo l'ultimo restauro del 2000 ha riacquistato colore e forma, potendo presentare al completo le figure dei dodici Apostoli in un cornice architettonica più efinita, anche se non sono state risolte tutte le incertezze della zona di centro, che interessa le figure di  Cristo, S. Giovanni e Giuda.

1. La preparazione

Già nel 1513 il pittore si era confrontato con il Cenacolo di Leonardo nell'esecuzione di una tela a Padova per il refettorio di S. Giustina nel monastero dei padri Benedettini. Pur accogliendo le novità milanesi optando per il momento del tradimento, tuttavia manifesta una grande indipendenza mentale e si avvicina all'altro polo di attrazione che è la pittura veneta di Giorgione. Da notare la scelta della tavola a U, sullo sfondo di una abside senza luce, il dialogo Pietro - Giovanni che richiama il tema vecchiaia-giovinezza, il giovane apostolo in veste rossa che a destra china il capo sulla spalla del vicino imitante il Giovanni di Leonardo.

Passata la fase eccentrica o" fronda tizianesca" del Duomo di Cremona (1519), al suo rientro a Brescia lascia le intemperanze espressive del grottesco condiviso con Altobello Melone per ricercare naturalezza e equilibrio classico secondo la grande lezione umanistica di Raffaello e Michelangelo nella Messa di S. Apollonio in S. Maria in Calchera e nella Messa di S. Gregorio ( marzo 1521), questa ultima in confronto diretto col Cenacolo del Moretto nella cappella del SS. Sacramento della chiesa di S. Giovanni.

E' in questo clima di devozione sacramentale che va posta la prolificazione di Cenacoli. In effetti il culto eucaristico rappresenta "uno dei grandi filoni in cui si inalvea la pietà bresciana del Cinquecento, protesa alla ricerca di un contatto più diretto con il sacro, di una esperienza più viva di esso, in accordo con esigenze ampiamente diffuse anche altrove, ma qui maggiormente avvertite nel clima di fervore e animazione devozionale promosso dalle numerose scuole del Santissimo Sacramento" ( V. Guazzoni, 1981).

Presso tutte le chiese della città si costituiscono scuole del SS. Sacramento sull'esempio di quella del Duomo, esistente già nel 1494, un fenomeno collegato alla predicazione di S. Bernardino, a cui non si è sottratto il Moretto, membro della Compagnia della Custodia delle Sante Croci in Duomo vecchio.

La stessa chiesa di San Cristo nasce con il titolo del Corpo e Sangue di Cristo a testimoniare precocemente questa devozione, illustrata con soggetti eucaristici: oltre alla presenza di tre Ultime Cene, Elia e l'angelo, il sacrificio di Isacco, Melchisedech che incontra Abramo, la lavanda dei piedi, le nozze di Cana, la manna nel deserto…Occorre aggiungere che a partire dal terzo decennio si diffondono i temi eucaristici in funzione apologetica, con forte sottolineatura della presenza reale di Cristo nell' Eucaristia contro le tesi luterane del 1517.

Il modello di Leonardo diffuso con tanto successo in Francia e nei paesi nordici si fermava ad una interpretazione commemorativa e comunitaria della S. Messa, ignorando il momento della istituzione dell' Eucaristia e del Sacerdozio. Un opuscolo edito a Neufchatel del 1534 porta il titolo significativo diArticles véritables sur les horribles, grands et insupportables abus de la messe papale, inventée directement contre la sancte Cène de Notre Seigneur parla chiaramente di Articoli autentici sugli orribili grandi e insopportabili abusi della messa papale, creati direttamente contro la Santa Cena di Nostro Signore. E' evidente la polemica protestante sul significato della Cena Ultima, un problema ancora ignoto al tempo di Leonardo.

2. La esecuzione

A pochi passi dal convento gesuata e prima del 1527 il Romanino aveva completato le Storie di S. Obizio in San Salvatore, quando anche Paolo da Caylina il Giovane dal 1527-1528 era impegnato con l'affresco dell'Adorazione del Cristo Eucaristico nei tre archi nord del coro delle monache.

Questi anni prima del trenta vedono impegnati nei vicoli dell'antico Foro Romano pittori come il Romanino, Paolo da Caylina il giovane, il Ferramola…presso i cantieri di S. Giulia, S. Maria in Calchera, San Cristo…E' quindi da ritenere accettabile la datazione attorno agli anni trenta dell'esecuzione del Cenacolo nel refettorio dei Gesuati. Nel 1531-1532 il pittore sarà a Trento per decorare il palazzo del vescovo Cles. Al suo rientro sono gli affreschi della Val Canonica, quelli di Rodengo ora in pinacoteca (1533) e la cena di Montichiari del 1535, dove l'impostazione ricorda il modello tizianesco.

Tenuto conto dell' iter artistico del pittore e del clima del tempo, ci si chiede quale intenzione ha guidato l'esecuzione del Cenacolo di S. Cristo. E' giusto ritenere che abbia voluto riproporre il momento della istituzione eucaristica, in linea con il rilancio della devozione eucaristica spiegata sopra, pur non potendo ignorare la presenza di Giuda dall'aspetto torvo in primo piano al di qua della tavola. Vi è poi la sorpresa manifesta degli altri Apostoli in gruppi di tre a sinistra, con un quartetto sulla destra e di Giovanni chino sul petto del Maestro, tutto ciò  rompe la perfetta simmetria di Leonardo, ma non il classico equilibrio dell'insieme.

3. Il restauro

La sorpresa del restauro è la ricomparsa del quarto uomo sparito sotto la patina dello sporco un po' defilato nell' arco di destra, tozzo e compatto come una statua, il capo calvo concluso nella barba folta. Anche Giovanni al centro ha ritrovato il caldo dorato dei biondi capelli nel gesto dell'abbandono dove prima era solo una macchia di colore ocra. Aldiquà della tavola la figura di Giuda fa da contrappunto a quella di Giovanni. Il volto, ben conservato nei lineamenti, manifesta i segni della inquietudine e del tormento mentre attinge al calice e si prepara ad uscire. Qui è anche l'unico intervento ricostruttivo nel rifacimento delle braccia mancanti di Giuda aldiqua del tavolo, per il resto il restauro si è limitato alla sola pulitura pulitura.

Come in Leonardo tutti personaggi, Gesù compreso, sono visti come uomini non ancora santi e in quanto tali mancano di aureolaGesù, integralmente conservato nei tratti del volto, emerge emblematicamente tra le teste di Giovanni e di Giuda poste sullo stesso piano come a voler comparare due modelli opposti, la fedeltà e il tradimento, il gesto di Giovanni reclinato sulla spalla di Gesù e l' apostolo che lascia per un suo progetto. Egli sta al centro in mesta solitudine, quasi ignorando la intima vicinanza dell'apostolo prediletto che lo seguirà fino ai piedi della croce. Si staglia gagliardo in un interno privo di finestre sullo sfondo di un catino absidale dorato che gli incornicia il capo come una aureola dove le linee della volta sono simili a raggi o fasci di luce che emanano dalla sua figura e conferiscono un senso di sacra spazialità all' ambientazione. L' affresco è posto sulla parete di fondo del refettorio dentro tre archi dove al centro sta Gesù sullo sfondo dell' abside, mentre ai lati sono due ordinarie pareti nobilitate da una nicchia con statua quale sfondo ai commensali in animazione.

Se nelle Cene di Rodengo l'ambientazione è un porticato rustico (la notazione del nido di rondine nell'angolo della volta fa pensare alla vita contadina dell'abbazia e gli stessi personaggi hanno un fare rude, possente), qui si nota più raffinatezza nella scelta dell' ambiente, nella tovaglia curata e la compresenza di bicchieri e bottiglie per acqua e vino di elegante stile. Il colore della scuola veneta si dispiega nei cangianti degli abiti, anche se ormai sbiaditi, e il gioco dei sentimenti è dato dal moto espressivo delle mani, dai volti vivissimi, alcuni avendo conservato la originale vivacità. Di grande vigore e dinamismo è il duetto dialogante di sinistra cui si unisce l'altro discepolo più giovane, come pure il gioco delle mani nel gruppo a destra.

Forse in questa cena più che in altre dipinte dal Romanino si nota la compresenza difficilmente conciliabile del senso dell'ordine e del senso della vita, quello che Leonardo raggiunge in massimo grado nel capolavoro milanese, come bene spiega il Gombrich. Scriveva il Vasari derivando da Vitruvio, che i maestri del '400 avevano raggiunto l' eccellenza nella osservanza della regola, della proporzione e dello stile. Tuttavia mancavano di un certo grado di "licenza" all'interno della regola che è quello di " muovere i riguardatori e contemplatori in quel medesimo effetto, ch' è quello per il quale tale istoria è figurata" ( da Leonardo).

Unire la regola della "divina proporzione" alla emotivita', alle passioni, alla partecipazione dello spettatore era il massimo per gli antichi. Questo ideale i Grandi del Rinascimento l' hanno cercato riuscendo a conseguirlo. Si ripropone la nota teoria leonardesca dei "moti dell'animo" che vuole rispondere alla questione di come dare vita ad immagini dipinte formalmente in modo perfetto, ma senza vita come quelle del pur valente Perugino da alcuni in passato definite malevolmente "manichini muti".

Agli inizi del 1900 il Longhi parlando delle "cose bresciane" a proposito della scuola locale faceva notare per la prima volta, al di là della scuola toscana-romana e scuola veneta, l' importanza della scuola lombarda caratterizzata dal realismo nella pittura della quale Vincenzo Foppa è l' iniziatore. Scriveva il noto critico: "Il telaio matematico che i fiorentini ostentavano come idolo artistico è qui di nuovo quasi cancellato e l' occhio trascorre empiricamente per impressione entro lo spazio naturalizzato e versa per così dire in un misticismo mondano tutto appreso ai particolari della triste aiuola. Taluni degli affreschi, lungi dal tenere della lucida disperazione formale dei fiorentini, puntano addirittura verso lo spazio luminoso di quei secentisti olandesi, dove gli interni, come scatole lucide, si rovesciano beatamente negli esterni profumati".

La pittura non doveva rappresentare solo l' ideale spirituale nelle sacre rappresentazioni, ma fare emergere la materia e la concretezza della vita. La lezione pare ben appresa dal Romanino se Giovanni Testori, suo entusiasta estimatore, ne sottolineerà la portata rivoluzionaria: secondo lui i cinquecenteschi bresciani sono diventati gli artisti che più hanno portato "carne e sangue alla tragica melma della rivoluzione caravaggesca, così si poteva spiegare la insolenza laida dei poveri del Ceruti , laceri ma dignitosi".

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